Ogni giorno le cronache delle “emergenze” riguardanti gli sbarchi di migranti dall’Africa ci accompagnano con il loro carico di angosce miste a trepidazione. L’esodo dei disperati affamati di soccorsi e di opportunità di vita percepita come migliore infatti non si fermerà. Non lo fermeranno certo i proclami dei politici, né i tentativi diplomatici tesi a salvaguardare interessi territoriali che non hanno l’obbiettivo di tutelare il benessere delle popolazioni locali. L’immenso tesoro di risorse africane che fanno parte di quello che fino a ieri ci piaceva definire “terzo mondo”e’ tuttora terra di conquista. Coloro che fuggono dalla fame e dalla guerra mettendo ulteriormente a rischio la propria vita, ci ricordano nella maniera più evidente, che i diritti alla sopravvivenza, alla pace e alla dignità, esistono per la maggioranza degli esseri umani ancora solo sulla carta.
L’esperienza che riporterò di seguito invece, parla di un processo d’integrazione che per quanto lento ed estremamente difficile, rappresenta quello sforzo che tutti noi abitanti di questo pianeta dovremmo continuare a voler fare, per poter continuare a chiamarci ancora esseri umani.
L’associazione Donne contro la violenza di Crema, racconta nella sua agenda annuale la storia di un incontro specialissimo avvenuto con i vissuti di alcune donne di origine africana emigrate in Italia. Eccone alcuni brani:
°…. Quello che facciamo da tanti anni è ascoltare, parlare, confortare, interessarci di donne……. Il racconto che riassumo è quello degli incontri con le donne richiedenti asilo ospiti della cooperativa Hope, sbarcate in Italia dopo un lunghissimo viaggio attraverso l’Africa.Un diario scritto grazie all’incontro tra donne che dopo una prima diffidenza, hanno deciso di condividere una parte di sé….Non c’è differenza tra noi e loro. Le abbiamo guardate e negli occhi hanno la stessa tristezza delle donne italiane, lo stesso spaesamento e lo stesso desiderio di riscatto…. Mi auguro che anche voi possiate attraverso questi racconti intravedere una realtà non viziata dai pregiudizi.
Chiara Canesi – Presidente Associazione Donne contro la Violenza – Onlus
- N. è una giovane minuta che non dimostra l’età che dichiara. In effetti forse i suoi documenti sono stati falsificati dai trafficanti che l’hanno portata in Italia e che tuttora la controllano. Alla morte dei suoi genitori uno zio paterno la prese in casa, assieme ai suoi fratellini, ma dopo poco le impose di sposarsi. Era una bocca da sfamare in meno. Una donna del villaggio la aiutò a scappare in città dove l’attendeva una famiglia che le diede un lavoro, ma che poi con una scusa la affidò a un signore che la portò con altre due ragazze in un altro paese. Arrestata, violentata dai poliziotti, si trovò su un barcone e poi in Italia. Lei stessa non ricorda bene tutti i particolari del viaggio, ha vuoti di memoria. Qui si è accorta di essere incinta della violenza e ha chiesto di abortire, assistita dalle educatrici del centro di accoglienza. Interrogata dalla commissione territoriale, dice appunto di avere vuoti di memoria, ha paura è sola, durante l’udienza non la lasciano starle vicino nemmeno le educatrici che l’hanno seguita. E poi chi la interroga è “poliziotto”,magari sono d’accordo. Non capisce bene però dice che”sì, capisce tutto quello che le sta traducendo il mediatore culturale “che però appartiene alla gente del villaggio vicino al suo! Non viene creduta. Dovrà rientrare. Ora prova a fare ricorso.
- Racconto di O. 27 anni – Sono nata e cresciuta nello stato di Nasarawa, uno degli stati confederation che costituiscono la Nigeria e che si trova al centro della federazione. Sono la quarta di sette fra fratelli e sorelle e ho interrotto gli studi prima di finire la Secondary School. In Nigeria ho solo mio padre;mia madre è stata uccisa dai mussulmani a causa della sua fede cristiana a cui non ha mai rinunciato. Anche io sono cristiana e amavo mia madre;ho deciso di andarmene perché la mia intera famiglia per paura, si è convertita all’Islam e per me non c’era più posto dove stare, così me ne sono andata e per questo chiedo asilo all’italia. Un giorno ho deciso di scappare e sono partita insieme a mio marito verso la Libia. Sono salita su un “bus” che in realtà era un camion stracolmo di persone, abbiamo attraversato il Niger passando da Agadez e poi siamo arrivati in Libia. Non voglio parlare del viaggio perché è stato terribile;molta gente è morta perché i posti non erano “buoni”, non avevamo da mangiare…In Libia ci hanno messo in prigione, chiedevamo da bere e mangiare, ma ci davano da bere un goccio d’acqua una sola volta al giorno…ci torturavano con l’elettricità procurandoci delle bruciature (mostra le braccia). Quando siamo riusciti a fare un buco nel muro i primi sono riusciti a scappare, ma quelli che ci hanno provato il”secondo giro”purtroppo non c’è l’hanno fatta, hanno sparato e molti sono morti ammazzati. Noi siamo scappati e correvamo, non sapevamo verso dove, ma a un certo punto siamo arrivati al mare. Qui abbiamo chiesto aiuto e ci hanno imbarcato. Dalla barca ci hanno recuperato in mare e qui, sulla barca mi hanno separato da mio marito. Sono arrivata in Sicilia il 29 maggio 2017,qui mi hanno visitato in ospedale e poi dopo un giorno sono partita per Milano, poi Cremona e infine sono arrivata nell’appartamento della Cooperativa Hope. Adesso vado a scuola di italiano da un’insegnante volontaria, vorrei lavorare in ospedale. Mi piace prendermi cura delle persone e mi piacciono i bambini. Mi piace vivere in Italia, ma sono ancora in attesa della Commissione per il riconoscimento dello status di rifugiata. Mio marito è a Roma, abbiamo mandato i documenti per ricongiungerci, ma per ora non succede niente. –
Ci premeva conoscere anche il punto di vista di chi lavora con queste donne migranti. Queste le loro parole :
Ogni incontro, ogni storia ed ogni percorso che sosteniamo è uno stimolo per fare meglio per cercare di fare ancora di più. La ricerca del bene è necessariamente la ricerca di un bene comune, di cui tutti siamo responsabili. Nella gestione dell’emergenza dei richiedenti asilo, che giungono nel nostro paese attraverso tratte migratorie sempre più disumane i grandi numeri diventano volti, nomi, storie di donne, di ragazze che hanno con sé solo un bagaglio di veri e propri traumi, di speranze, di incertezze. Gli strumenti necessari all’inclusione sono tutti da costruire poiché si ritrovano in un mondo in cui crollano i normali riferimenti sociali, culturali ed economici. Si tratta di persone che hanno perso tutto ed in modo doloroso e repentino: lavoro, amici, parenti, la possibilità di usare la propria lingua d’origine. L’asilo politico e l’accoglienza è una gestione di civiltà. Più che un lavoro una sfida, una continua evoluzione per giungere a comprendersi reciprocamente, sempre di più e sempre meglio.